Manuele Cecconello (‘SENTIRE L’ARIA’)

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intervista a Manuele Cecconello, regista del doc ‘SENTIRE L’ARIA’ (I, 2010)

Terra, martedì 12 luglio 2011, pg.13

L’ascolto interiore dice Natura. Nel documentario ‘sentire l’aria’, «seguendo dai 16 ai 18 anni Andrea, figlio di un chirurgo oncologo e un’insegnante, che ha scelto di fare il pastore di pecore, per una vita a contatto con la Natura che gli placasse i tumulti di un ragazzo che sta diventando uomo, abbiamo restituito questa trasformazione – ci racconta il regista, Manuele Cecconello – in un film che vuole essere sulla libertà».

– Come è nata quella decisione?

«Il nonno gli lasciò l’insegnamento della frase del titolo, modo di dire dei vecchi piemontesi secondo cui sentendo l’aria si può intuire molto, e qui il sottinteso è cercare di capire come vanno le cose, e ciò che si desidera. Il nostro protagonista, sentendo l’aria che gli tirava dentro, ha deciso di seguirla».

– E questo cosa ha comportato?

«C’è stato un lungo dibattitto interno alla famiglia. Con grande accortezza e lungimiranza, i genitori hanno affiancato il figlio, assisitendo quindi anche al successo – in termini umani, psicologici e poi anche economici – della sua scelta. Il padre ha saputo assecondarne e circoscriverne i tumulti, dandogli la possibilità di autodeterminarsi. Quest’armonia con i ritmi e i modi della Natura è rispettosa di una sensazione, di un humus interiore che troppo spesso tendiamo a mettere in second’ordine, se non a dimenticare. Nonostante i 18 anni, Andrea ha nelle mani già una sapienza e un mestiere, e per diventare autonomo sta sfuggendo alla logica delle sovvenzioni, modellando una proposta microeconomica sostenibile, sensata, vantaggiosa, su una scala di esigenze personali».

– Che ruolo riveste, oggi, la pastorizia?

«Vive di una spinta tradizionale. Per poter campare al di fuori dell’assistenzialismo, occorrono, però, almeno mille capi, e questo implica una mole di lavoro che non può fare una sola persona. Il settore rappresenta specificità locali, caseificazione e lana, che nel biellese non è particolarmente adatta alla tessitura, ma se ne possono ricavare vari prodotti, anche d’arredo. Quindi, le prospettive economiche, latenti, ci sono, bisogna amplificarle e, soprattutto, rispettare aree culturali molto vaste».

– Cosa ha significato, per lei, la realizzazione del documentario?

«Il progetto consisteva in un film e in un grande libro fotografico di Andrea Taglier annesso, la prima tiratura di 1500 copie è andata a ruba, e ora sta per uscire la ristampa italiano/inglese. Io vengo dal cinema di ricerca, e questo lavoro mi ha traghettato da una dimensione sperimentale all’incontro con un pubblico. Il viaggio è stato recepito, c’è bisogno di queste immagini, storie e verità. Questo ci ha dato un’informazione molto importante: i documentari sono un modo per ridare cittadinanza alla nostra vita, non rappresentano solo infomazioni, ma anche emozioni che, al di là di un francobollo di terra e della vita di un ragazzo sconosciuto, possono assumere valore anche per gli altri, troppo spesso sottovalutati da una proposta culturale livellata verso il basso. Il messaggio che ci viene è: vogliamo qualcosa di più, e di meglio».

Federico Raponi

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